Questo racconto è stato scritto un giorno, a caso, nel tentativo di seguire i suggerimenti dell’ottimo corso di scrittura di Fabio Bonifacci, che ho già consigliato su questo blog e che consiglio ancora. In particolare sono partito da una parola estratta tramite questo sito ed è uscito “beam” che significa “raggio”.
Anche oggi mi trovo in casa, nell’angolo più sperduto, distante dall’uscita. E nemmeno è mia, la casa. Però ha qualcosa di familiare: la conosco in ogni particolare, ma guardandola attentamente sento che non mi appartiene. Ho deciso che voglio uscire. Come ogni giorno. Cerco di muovermi verso l’uscita utilizzando la forza di tutti e quattro gli arti, ma l’operazione è più difficile di quanto immaginassi. Quasi allo stremo delle mie forze, vedo l’uscita sempre più vicina. Questa volta è fatta, penso come ogni volta. E invece, quando l’uscita sembra ormai raggiunta, un’energia al di là delle mie capacità mi riporta nel solito angolino.
Va avanti così da settimane, forse mesi. Non ce la faccio più.
Oggi è l’ultima volta che ci provo, giuro. Se non ci riesco, vorrà dire che mi adatterò alla condizione con cui il destino mi ha obbligato a convivere. Tendo i muscoli, mi muovo verso l’uscita e…
«Svegliati, pigrone, è primavera», mi dice una voce estremamente familiare. La riconosco, è quella della mia mamma. Tento di aprire gli occhi, ma un raggio di luce accecante me lo impedisce. Solo per qualche istante, però, giusto il tempo di riabituarmi al chiarore del giorno.
«Ti ho sentito rumoreggiare, poco fa. Anche quest’anno gli incubi ti hanno tenuto compagnia per tutto il tempo?», aggiunse lei.
«Sì, mamma», ribadii scocciato. «Dormire per venti settimane è una gran cosa, ma non mangerò mai più i peperoni prima di andare in letargo».