Da giorni ormai tutti i telegiornali parlano della centrale nucleare di Zaporizhzhia e oggi c’è stata una telefonata sul tema tra Macron e Putin.
I russi accusano gli ucraini, e viceversa, nel solito valzer di insinuazioni indimostrabili sotto la coltre della “fog of war”.
Invece di cercare i colpevoli a partire da quello che succede, possiamo provare a stimarli in base agli effetti che certe azioni causano.
Partiamo per esempio dalla crisi del grano. Da quello che sappiamo, da una parte gli ucraini avrebbero minato il porto, dall’altra i russi non avrebbero fatto passare le navi. Per trovare una soluzione (che alla fine pare essere arrivata in un blitz, tra l’altro) ci sono voluti mesi, un periodo lunghissimo nel quale molte popolazioni, per esempio quella libanese, hanno visto schizzare in su il prezzo del pane. Chi ci ha guadagnato? Un po’ gli ucraini, forse, che hanno in questo modo tenuta alta l’attenzione verso il conflitto. Un (bel) po’ i russi, che in questo modo hanno destabilizzato vari paesi del nord Africa, aumentando i flussi migratori verso l’Europa e – di fatto – acuendo uno dei pochi temi su cui l’Europa si è sempre mostrata divisa.
Qualcuno per caso ricorda quale potrebbe essere un altro tema divisivo per l’Unione Europea? Se avete risposto “energia”, la pensate come me. L’Europa ha sempre avuto un gigantesco problema energetico. Siamo tanti, viviamo in una superficie relativamente piccola, abbiamo poche risorse naturali e siamo parecchio energivori. D’inverno ci piace il tepore, d’estate il fresco. Non sto a dilungarmi sulle scelte fatte negli ultimi 20 anni per procurarci le materie al fine di soddisfare questi bisogni, ma sta di fatto che l’emergenza causata dall’aumento dei prezzi, a loro volta causati dalla nostra dipendenza dalla Russia, ci stanno facendo ripensare all’energia nucleare.
Siamo quasi arrivati al punto. Immaginate ora di essere la Russia. Sapete che nell’immediato i paesi europei hanno talmente bisogno del vostro gas che sono disposti a pagarlo il doppio e riceverne la metà (in pratica i russi stanno guadagnando la stessa cifra fornendoci molto meno gas; questa cosa mi fa impazzire, ma purtroppo è così). Sapete anche che i suddetti paesi stavano abbandonando l’energia nucleare ma ci stanno ripensando. Sapete che nell’opinione pubblica europea uno dei fattori che più ha giocato a sfavore dell’energia atomica è stato l’incidente di Chernobyl. Potete infine stimare che ci vorranno anni (tanti anni) per un passaggio completo all’energia pulita, soprattutto senza (ri)passare per il nucleare.
Ora, immaginate di avere in mano una centrale nucleare e un ottimo pretesto per scatenare un incidente. Capisco che a pensar male si fa peccato, però anche il proverbio, nella sua saggezza, sostiene che quasi sempre ci si azzecca.
Oggi voglio raccontarvi la storia dell’Intercity 518, un momento che entrerà nella storia dei trasporti italiani, uno di quegli eventi per cui potrò dire ai miei nipoti: “Io c’ero”.
(so che è un clickbait, ma sappiate che Trenitalia ha promesso di rimborsare il 100% del biglietto, quindi ne vale la pena)
L’Intercity 518 è l’unico treno che collega direttamente Roma con Ventimiglia, l’estremo ponente della Liguria, utilizzato per lo più dai turisti che vanno in Francia. Non è insolito, infatti, trovare fauna di vario tipo, che spesso non parla italiano. Se poi la suddetta fauna è francese, non parla nemmeno inglese (questa è un po’ razzista, lo so).
Prima di entrare nel vivo, però, è utile fare un ripasso della topologia delle ferrovie di Roma, almeno nella parte interessata dalla narrazione. Partendo da Roma Termini, i treni che vanno verso il Tirreno (a ovest, diciamo) passano prima dallo snodo di Roma Ostiense, poi raggiungono Trastevere, dove la linea si biforca per andare a Fiumicino, e infine a Roma San Pietro, dove poi prosegue per Civitavecchia o Viterbo.
La partenza del convoglio è prevista intorno alle 16 da Roma Termini, anche se io normalmente lo prendo da Roma Ostiense, più vicino a Roma San Pietro, dove ho domicilio nelle mie “vacanze romane”. Lo prenderei proprio da quest’ultima stazione, se non fosse che l’Intercity ci passa ma non ci ferma (questa informazione, apparentemente inutile, tornerà utile tra poco).
Morale, esco di casa per andare a San Pietro a prendere il solito regionalino per Ostiense. C’è un discreto diluvio, uno di quelli che sai che dura pochi minuti, gli unici pochi minuti in cui devi uscire di casa per andare da qualche parte. A piedi.
Arrivato alla stazione scopro di non essere stato l’unico ad aver subito disagi a causa della pioggia: un fulmine ha colpito la centralina di Roma Ostiense, bloccandone tutto il traffico. Questo mi preclude la possibilità di prendere il regionalino per acchiappare poi l’Intercity, ma allo stesso tempo mi tranquillizza perché lo stesso Intercity avrebbe avuto problemi a partire, dovendoci passare, per Ostiense. Poi in quei momenti ognuno si fa le sue paranoie: magari l’Intercity lo fanno passare lo stesso; magari essendo un treno a lunga percorrenza gli fanno fare un tracciato alternativo; magari ci appiccicano sopra delle eliche e lo fanno decollare a mo’ di drone. Chi può dirlo? Insomma: esco dalla stazione e prendo il 64 per andare a Termini a prenderlo alla partenza.
Durante il tragitto in bus, sorrido al pensiero che nella tanto citata sigla PNRR l’ultima parola è “resilienza” e poi basta un fulmine per mandare in tilt l’intera rete dei treni romana. Mi sposto con la mente in Ucraina, dove le ferrovie sono martoriate dai bombardamenti ma riescono comunque a trasportare persone e armi. Altro che quel rarissimo evento atmosferico chiamato fulmine.
Arrivo a Termini e il treno è già sul binario. Come si poteva prevedere, il treno è dato con 15 minuti di ritardo. So per certo che alla fine saranno di più, ma penso che “prima o poi partirà, non ho da fare cambi, chissenefrega”.
Prendo posto nella carrozza numero 4. Di fronte a me alcuni ragazzini guardano film sul cellulare, mentre a fianco c’è una mamma con due bambini indemoniati. “Guarda che bel disegno che ho fatto”, “Ma è bruttissimo”, “Mammaaaa! [nome del bambino] ha detto che il mio disegno è brutto”. Il tutto urlando a squarciagola. E comunque, il disegno era orribile. Spero che scendano presto.
A un certo punto arrivano le minacce della mamma: da “Se non fate i bravi, vi lascio qui” a “se non la piantate, torniamo a casa e niente vacanza”. Cara signora mamma di quelle due piccole pesti, se le minacce non sono credibili non ci crederanno.
Intanto è passata circa un’ora e mezza e siamo ancora fermi a Roma Termini. Ogni tanto arriva un annuncio del tipo “ci scusiamo per il disagio, vi terremo informati sulla situazione”. Cosa che però non è stata fatta, perché a un certo punto parte il telefono senza fili tipico delle situazioni di disagio sociale tra sconosciuti: “il treno non parte più”. Cerco il capotreno, che effettivamente mi conferma che quel treno da lì non si sarebbe mosso. Grazie mille per averci avvisato tempestivamente e con i canali appropriati.
Il suggerimento è quello di andare a Roma San Pietro (sic!), diventato il nuovo capolinea della zona tirrenica, dove nel giro di un paio d’ore sarebbe partito il treno, fisicamente diverso ma con lo stesso itinerario.
A quel punto faccio una domanda che si rivelerà profetica: “Ma siamo sicuri che poi arrivi a Ventimiglia? Non è che si ferma prima?”. “No, no, non si preoccupi”, mi tranquillizza il capotreno, “se il treno parte, poi arriva”. Benissimo.
Si torna alla fermata del bus, e si riprende il 64 insieme ai capitreno (essendo fuori uso Roma Ostiense, il trasporto urbano su gomma era diventata l’unica opzione percorribile, anche per loro).
A San Pietro è il caos. Sui marciapiedi sono accalcate centinaia di persone in attesa da ore di qualsiasi cosa (anche un calesse, probabilmente) che permettesse loro di andare verso Civitavecchia e Viterbo. Chiedono se possono prendere il nostro Intercity (che effettivamente ci passa) ma con l’empatia tipica di Trenitalia viene loro detto che “è un Intercity, se salite dovete pagare il sovrapprezzo”. Tenore della risposta media: “siamo qui da due ore, se questo treno va a Civitavecchia io ci salgo e sticazzi”.
L’ottimismo di queste persone si spegne rapidamente, quando scoprono che l’Intercity deve ancora arrivare, e non c’è una stima di quando questo avverrà. Ci dicono solo che il materiale è quello del treno 511 proveniente da Torino, ma l’app di Trenitalia non è aggiornata e tutto quello che si sa è che un’ora prima si trovava a Civitavecchia. Tra l’altro questo 511 doveva andare a Salerno, ma il suo viaggio si è miseramente interrotto a Roma San Pietro. Non so che fine abbiano fatto i suoi passeggeri originari.
Sono ormai le 18.30 e il 511 (che sta per diventare 518) arriva e vomita il suo contenuto di umanità spaesata e incazzata sul marciapiede del binario 4 della stazione di San Pietro. Umanità incazzata proveniente da Torino che si aggiunge all’altra umanità incazzata proveniente dal resto del mondo, tutti insieme a Roma San Pietro.
Io “guardo e passo”, e salgo sul treno. Appena trovato il mio posto, noto nelle poltroncine a fianco due zainetti da bambino senza alcun passeggero. Il mio primo pensiero è stato che fossero stati dimenticati dai passeggeri del treno per Napoli, ma mi sono poi reso conto che era solo un escamotage del mio cervello per rimuovere la presenza dei due piccoli indemoniati, che infatti dopo pochi minuti si palesano anche sul nuovo convoglio.
Condizioni di pulizia a parte (Torino-Roma è lunghetta e non c’è stato tempo di dargli una passata), finalmente l’odissea mi sembra finita e poco dopo le 19 il treno parte.
Da Roma a Genova, il viaggio prosegue senza troppi intoppi. Resta inspiegabile il motivo per cui siamo partiti con 180 minuti di ritardo e siamo arrivati a Genova con 210. Visto l’orario, mi aspettavo che, anzi, si recuperasse qualcosa, e invece nisba!
Tuttavia uno spiraglio di recupero arriva a Genova Brignole. Dei 12 minuti ufficiali previsti di sosta (per motivi che sono fuori dalla mia comprensione), il treno ne salta la quasi totalità, recuperando quindi una decina di minuti buoni. Sono piccole soddisfazioni.
All’una meno dieci minuti siamo a Genova Piazza Principe, punto di svolta del viaggio. Da lì dovrebbe essere tutto in discesa, mi dico, anche topograficamente guardando la cartina della Liguria.
E invece…
E invece il treno non ha mai lasciato la stazione di Genova. Dopo un’ora di sosta, iniziano ad arrivare delle piccole scatole di cartone con scritto “Courtesy kit”, e non è mai una buona notizia. Mi mangio volentieri la crostatina e i taralli, restando in attesa del disastro in arrivo.
Ore 2, ormai siamo a Genova da più di un’ora, arriva la ferale notizia: “Il treno non proseguirà la corsa”. Ricordate la domanda profetica di prima? Ecco. “Tutti i passeggeri devono scendere dal convoglio, sarete assistiti dal personale di stazione in attesa che si trovi una soluzione alternativa”.
Vengo a sapere in un secondo momento che lo stop è stato causato dal malore di un macchinista, Trenitalia ha provato a cercare un sostituto senza successo, e alla fine ha optato per fermare il treno.
Nella mezz’ora successiva arrivano poche informazioni. Pare che siano state contattate varie aziende di autotrasporti per trovare dei pullman sostitutivi, ma l’unica disponibile era a Torino, tramite la quale saremmo partiti non prima delle 5 per attendere l’arrivo dei mezzi a Genova. Terrorizzati da questa eventualità, ci viene proposta una soluzione basata su taxi: una ventina in tutto, per le 86 persone ancora presenti sul treno a quel punto.
Mentre a Roma San Pietro regnava il caos, qui a Genova si percepisce la totale rassegnazione dei viaggiatori. Sarà l’ora, la stanchezza o il senso di impotenza, sta di fatto che nessuno si mette a urlare o discutere con il personale di Trenitalia in modo acceso. Riportatemi a casa in qualche modo, vi prego!
La ragazza dell’assistenza ci legge i numeri delle destinazioni (“a noi risultano: 20 persone per Savona, 15 per Imperia, 10 per Ventimiglia, ecc”) e ci chiede di raggrupparci. Nonostante la situazione grottesca, iniziamo a fare conoscenza l’uno dell’altro per chiedere le varie destinazioni. Io trovo i miei “colleghi” diretti a Bordighera, veniamo uniti a un ragazzo con destinazione Alassio e finalmente, alle 3.15, partiamo.
Il viaggio in taxi è stato molto piacevole: scopro che i tre ragazzi ventenni con destinazione Bordighera (che, ancor meglio, era Vallecrosia come la mia) si apprestavano a trascorrere qualche giorno di vacanza. L’altro ragazzo ventitreenne, scaricato per primo ad Alassio, raggiungeva un suo amico per le ferie. Ognuno accompagnato dalla sua storia, arriviamo a destinazione: sono le 5.20 e sono a casa, quasi non mi sembra vero.
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