(album di foto completo su Facebook)
La notte a Douglas è stata tranquilla. La differenza rispetto ai rumori di Liverpool è talmente tangibile che ho dormito come un sasso (ok, è vero, ero anche devastato dalla giornata precedente).
Sceso nella hall dell’albergo, scopro con sorpresa una colazione britannica che gusto come se non mangiassi da mesi. L’albergo di Liverpool, dove ho passato le tre notti precedenti, non offriva la colazione, quindi per amore dei miei colleghi italiani ho sempre mangiato all’italiana, da Starbucks o Costa. A parte i fagioli (serviti con una salsa che ha il gusto del ketchup, come da tradizione), tutto il resto era delizioso e preparatorio a un’altra giornata di peregrinazioni per l’isola.
La prima tappa della giornata è una delle mete turistiche più celebri dell’isola, la ruota di Laxey. Si tratta di un enorme mulino utilizzato per pompare fuori l’acqua dalle miniere di zinco durante tutto il XIX secolo. Con i suoi 22 metri di diametro, è il più grande mulino ad acqua ancora funzionante nel mondo. Durante la rivoluzione industriale, tirar fuori dalle montagne il materiale necessario per il funzionamento dei macchinari era una delle operazioni fondamentali, e la storia insegna che la Gran Bretagna (e di riflesso l’Isola di Man) è stata capostipite del genere. Tuttavia, le miniere avevano il difetto di riempirsi d’acqua a causa di piogge e allagamenti, pertanto erano state inventate pompe sofisticate per svuotarle. C’erano molti modi per alimentare queste pompe, principalmente i motori a carbone. Sull’isola, però, il carbone scarseggiava e doveva essere importato dalla terraferma, il ché faceva aumentare i costi di gestione di qualsiasi miniera. L’idea era quella di costruire un enorme mulino, che potesse sfruttare l’acqua che le frequenti piogge sull’isola fornivano in quantità copiosa.
Piccola nota di colore: in una delle rovine della struttura si è installata una colonia di api. Siccome questi piccoli animali sono molto preziosi e gli isolani lo sanno, questi ultimi hanno inserito un disclaimer per i turisti: “sì, lo sappiamo, ci sono le api; noi ci teniamo, però; quindi vedi di adattarti, perché non le scacceremo per far piacere a qualche facoltoso turista”. Ok, il cartello è in inglese e usa un tono più pacato e gentile, ma il senso è quello che ho scritto.
Purtroppo, il venerdì mattina la pompa è in manutenzione e non è possibile vederla in azione. L’addetta alla biglietteria, dopo l’usuale domanda sulla mia provenienza con conseguente faccia stupita, è molto gentile, tanto da scrivermi sul biglietto una autorizzazione a ritornare nel pomeriggio, quando la pompa verrà riaccesa. Nonostante i miei tentativi di ripensare la giornata, non risulterà fattibile. La userò come scusa per tornare da queste parti in futuro (e magari, da buon italiano, conserverò il biglietto per non dover pagare di nuovo).
Nei paraggi si trova un’attrazione dedicata ai più piccoli, con un giro in trenino dentro alle vecchie miniere. Nonostante la mia non più giovane età, mi incuriosisce, e il mio entusiasmo riceve un brusco arresto quando scopro che è fruibile solo di domenica.
Proprio mentre riprendo l’auto, inizia a piovigginare. Niente di ché, in realtà. La giornata non è certo partita con le migliori intenzioni, ma nel mio piano di viaggio sarebbe prevista la scalata (se così si può chiamare) sul monte Snaefell, alto circa 600 metri (partendo da 550, per essere onesti). La leggenda narra che nei giorni di sole splendente dalla cima del monte si possono vedere sei regni: Inghilterra, Irlanda, Scozia, Galles, Isola di Man e paradiso. Premesso che – mea culpa – non credo nell’esistenza dell’ultimo, sarei contento di vederne almeno un paio, invece mi arrendo all’idea che dal parcheggio a 50 metri dalla sommità non riesco a vedere nemmeno quest’ultima. Decido di non salire nemmeno sulla vetta (non c’è davvero un tubo), ma aspetto una decina di minuti che arrivi il folcloristico trenino elettrico che collega la montagna con Laxey, giusto per una foto. Nonostante si tratti di un treno storico tenuto in vita solamente per i turisti, mi stupisce per la lentezza. La partenza dalla cima è prevista per le 11.10, quindi mi aspetto di vederlo arrivare alla stazione intermedia (a 500 metri circa) dopo al massimo qualche minuto. La puntualità dei treni inglesi non è nemmeno in discussione, quindi quando alle 11.16 ancora non lo vedo arrivare dò per scontato che è stato annullato per brutto tempo. D’altra parte, la tipica pioggerellina britannica e il nebbione che mi circonda non inviterebbero nemmeno il turista più impavido ad avventurarsi verso la sommità di un monte di 600 metri dove non c’è nulla e non si vede un tubo. Metto in modo la macchina, quando vedo sbucare dal candore della nebbia (forse era questo il paradiso che gli antichi millantavano di poter vedere dalla sommità della montagna) un piccolo vagoncino. Sono le 11.19, e dall’andatura con cui si avvicina alla stazione capisco la definizione di “a passo d’uomo”. A posteriori, scoprirò che per il tragitto completo fino a Laxey (7 km) impiega 30 minuti: un corridore discretamente allenato può starci dietro senza fatica.
Mi dirigo a Douglas, di passaggio per raggiungere il sud dell’isola, per fare una capatina veloce al museo dedicato alla ferrovia elettrica dell’isola. Qui è doveroso un’altra piccola digressione riguardo ai trasporti su rotaia dell’isola. Fino alla metà del 1900, la ferrovia era ampiamente utilizzata, tanto da coprire ogni centro abitato dell’isola ed essere utilizzata dagli abitanti come mezzo di locomozione abituale. Col passare del tempo, la benzina ha fatto il suo corso e la ferrovia è finita in disuso. Un paio di linee sono state chiuse, e altre due sono rimaste aperte per miracolo. Negli anni Settanta, le aziende che gestivano le linee rimaste decidono di gettare la spugna e minacciano la cessazione del servizio. Il governo, come già detto in precedenza, si preoccupa dell’acquisto dell’intera infrastruttura e la trasforma in attrazione turistica. Sono rimaste operative in tutto tre linee: Douglas-Ramsey e Laxey-Snaefell (elettriche), e Douglas-Port Erin (a vapore). Fine della digressione.
Arrivato a Douglas, trovo facilmente la partenza della linea dove è collocata l’esposizione, anche grazie all’aiuto dell’enorme scritta “Electric Railway” posta sulla montagna a mo’ di Hollywood. Di nuovo il mio entusiasmo viene azzoppato quando scopro che il museo del treno elettrico è aperto solamente di domenica. Pazienza, oggi va così.
Saluto Douglas per l’ultima volta, faccio ancora qualche foto e mi avvio verso l’estremo sud dell’isola, per recuperare un po’ di attrazioni lasciate indietro il giorno precedente. Per strada, mi imbatto in una “House of rest for old horses”, una casa di riposo per cavalli. Nel mondo anglosassone è la norma, ma all’italiano medio che i cavalli è abituato a mangiarli fa un po’ strano.
Attraverso l’intera isola (impiegandoci la bellezza di 15 minuti) e approdo a Port Erin per una gita sul treno a vapore, con relativo museo. Arrivo intorno alle 12, ma il convoglio parte solamente alle 14, quindi inizio subito con il museo (relativamente piccolo, anche se grazioso). Sono fuori dopo mezz’ora, così mi butto in un supermercato alla ricerca di una prelibatezza locale: il sandwich inscatolato. Qualcuno potrà guardarmi con disprezzo e un po’ di compassione, ma certe cose vanno fatte nel luogo dove sono state inventate. Sono capaci tutti a prendere un sandwich nelle macchinette di FBK a Trento. Farlo all’Isola di Man ha tutto un’altro sapore, ti fa sentire parte del territorio. Aggiungo un succo d’arancio al mio pranzo, e mi dirigo verso una zona panoramica per consumarlo. A dirla tutta, il tempo di questa giornata non si intona molto con la parola “panoramica”, ma tant’è.
Arrivo in stazione qualche minuto prima delle 14. La biglietteria ha finalmente aperto i battenti, e acquisto il biglietto per il paese a fianco, Port St. Mary. Il tragitto è di un chilometro appena, e la scelta non è casuale: se il treno del ritorno ha un qualsiasi problema, posso tornare a piedi a recuperare l’auto. E poi, dai, per provare l’ebbrezza di salire su un treno a vapore che va a 30 all’ora direi che due chilometri (andata e ritorno) sono più che sufficienti.
Nella cittadina di Port St. Mary ho a disposizione una quarantina di minuti, giusto il tempo di farci un giretto e prendermi un caffè. Anche in questo senso la scelta dell’itinerario è provvidenziale, visto che ieri avevo saltato il paesello, per non sottrarre tempo ai due castelli, meta principale della gita. Tra l’altro a Port St. Mary non c’è davvero un tubo. Alla ripartenza per tornare a Port Erin, mi diletto nel registrare un video che riprende il treno in ingresso nella stazione, come a chiudere il cerchio iniziato dai Fratelli Lumière più di un centinaio di anni fa. Ok, forse me la sto un po’ tirando, però potrete giudicare il video voi stessi (e comunque è stato molto divertente anche solo pensarlo).
Da Port Erin mi avvicino all’aeroporto dove tra qualche ora mi aspetta il treno per il ritorno. Nell’attesa, vado a ri-cercare Rushen Abbey premunito di fotografia sul cellulare. Questa volta la trovo senz’ombra di dubbio: era a un centinaio di metri da dove il giorno prima brancolavo nel buio. Scopro così che il cartello (l’unico) che indica l’abbazia è stato spostato dal vento o da qualche buontempone, e ora punta verso l’uscita sbagliata della rotonda.
Le rovine dell’abbazia la dicono lunga sulla sua storia, le descrizioni dei pannelli raccontano di come doveva essere la vita da monaco cistercense al suo interno a partire dal XII secolo. Il medioevo sarà pur stato un periodo buio per la scienza, ma ci ha regalato parecchio gioielli architettonici che non pensavo fossero tecnicamente possibili in quel periodo. La mia visita termina bruscamente alle 16, dopo solo mezz’ora, perché l’abbazia chiude (sic!). Non che ci fossero i presupposti per passare lì dentro l’intera giornata, ma qualche decina di minuti in più mi avrebbero fatto apprezzare meglio alcuni particolari spiegati nei pannelli a latere delle rovine.
Non mi resta altro che tornare in aeroporto, dove mi aspettano due ore di lunga attesa (paradossale: avrei avuto tutto il tempo di visitare l’abbazia, il sole da queste parti ad aprile tramonta alle 21, ma tutto chiude alle 16). Mi ritrovo a consegnare la mia fedele compagna di viaggio, e a trarre qualche conclusione su come si vive la strada dalla parte opposta. Nell’ordine, la mia top-3 delle cose più strane è: (iii) non si sa mai dove guardare agli incroci, e nel dubbio si guarda in tutte le direzioni (anche in alto), scatenando una pacata rabbia inglese nelle macchine dietro; (ii) le rotonde, che sono riuscito a non sbagliare mai, ma che ogni volta fa perdere quei 2/3 secondi per pensare a come gestirla; (i) la marcia, che si trova dall’altra parte, e prima di abituarsi a staccare dal volante la mano giusta ci sono voluti giusto due giorni.
Sono molto soddisfatto della gita, ho visitato tutti i luoghi che mi ero prefissato, approfittando anche di qualche sorpresa non preventivata. Isola di Man fatta, segno di spunta scritto, meta consigliata a chiunque voglia trascorrere un paio di giorni diversi dalla solita vacanza.
Ho letto con immenso piacere questo tuo racconto di viaggio. Ho così scoperto il tuo blog grazie all’isola di Mann. Continuerò a cercarti on line.