Superati i palazzoni, mi ritrovo nel centro della capitale. Ogni simbolo che può ricondurre alla dominazione sovietica è ormai scomparso, per far posto alla cultura occidentale che ha preso il sopravvento: centri commerciali, negozi di elettronica, banche.
Su quest’ultimo punto una riflessione è d’obbligo: le banche sono quasi esclusivamente straniere, in gran parte svedesi. Al momento dell’indipendenza la nazione non si è trovata pronta per l’ingresso nel capitalismo, per cui la situazione è sfuggita di mano a favore della moneta straniera. La casa dove ero ospitato si trovava a 100 metri da una filiale lituana di Unicredit.
Al centro della città sorge il castello, costruito nel 1400, da cui si può salire nell’unica torre rimasta in piedi, per gran parte ricostruita in tempi recenti. Il resto del castello (così come parte della torre) è stato pesantemente danneggiato durante le due Guerre Mondiali.
Dalla torre si può gustare una notevole veduta del paesaggio circostante; parlo di paesaggio perché definire Vilnius una città non è del tutto veritiero. Le aree verdi sono decisamente più evidenti delle parti costruite. Salta all’occhio solamente la zona nuova, costruita dopo la riconquista dell’indipendenza: nei suoi grattacieli si cela la “stanza dei bottoni” lituana.
Mi ha graziato il clima, stranamente favorevole considerando le temperature medie del periodo. Se nel periodo primaverile si riesce a gironzolare con felpa e giacca, in inverno il termometro non si fa troppi problemi a scendere sotto i -10 gradi, difficili da sopportare per un italiano sotto qualunque giaccone. Ma non per le Babushke, letteralmente nonne, termine con cui lo straniero solitamente denota le anziane signore che vendono nelle vie del centro calzettoni e altri invernalissimi indumenti fatti a mano.
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