Ieri e oggi giornate nere per la mia informatica. La chiamo “mia”, perché tutto sommato un po’ appartiene anche a me: lavoro in ambito informatico e sono dottorando in ambito informatico.
Tuttavia, ogni tanto c’è chi rovina questa “mia” informatica. Sto parlando di tutte quelle schiere di persone che, quando trovano una falla in un sistema informatico, spiattellano al mondo quello che hanno trovato. È successo infatti nell’Università di Pavia, dove lavoro, e ha causato non poche scocciature al sottoscritto e a tutte quelle persone che si fanno il mazzo per far andare avanti la baracca.
Ci sono vari modi di fare gli “hacker”. Uno è quello di andare contro i cattivi (come ad esempio le multinazionali), un altro è quello di dimostrare che si può fare e basta, un altro ancora quello di trarre personalmente profitti dalle proprie marachelle. Quello che però non capisco è la condivisione con il mondo delle informazioni trovate, anche se personali. Un “celodurismo” allo stato puro, degno del peggior berlusconismo italico. È come se un medico, scoprendo una malattia in un paziente, anziché curarlo lo imbottisse di farmaci per farlo stare peggio. Per parafrasare loro, l’azione potrebbe anche essere accompagnata a un’affermazione del tipo: “Avete visto come la Natura sia poco sicura? E questo è solo l’inizio”.
Ecco, quindi, il perché della “mia” informatica: diversa da una “altra” informatica, che non mi appartiene.