Ah, la pubblicità

(Credits immagine: Vice Italia)

C’erano tempi in cui ogni tanto ti chiamavano per proporti qualche offerta commerciale. Purtroppo quei tempi sono finiti, non tanto perché ora non chiamano più, bensì per il motivo opposto: chiamano troppo.

Per questo motivo, nel 2010 il Governo Italiano ha creato il Registro delle opposizioni. Ciascun utente, registrando il proprio numero su questo registro, di fatto inibisce queste chiamate: un call center che voglia proporre offerte commerciali è tenuto a consultarlo prima di chiamare un numero, pena… nulla! Come sempre.

Nonostante io sia registrato a questo servizio da quando esiste, continuo a ricevere le noiose telefonate. All’inizio ero solito ascoltare, poi ho iniziato a dire gentilmente che la telefonata costituiva un illecito, poi sono passato all’insulto, ora semplicemente riattacco. E salvo il numero. Sì, perché la legge dice anche che le telefonate di tipo commerciale non possono arrivare da un numero sconosciuto. Qualcuno potrà dire – in base alla propria esperienza – che nemmeno questo accade, e avrebbe ragione. Tuttavia le chiamate da numero privato sono sempre meno, e possono essere identificate facilmente attuando la policy di non rispondere (cosa che faccio io, lo sottolineo, così chi mi chiama da un numero privato sa perché non rispondo).

In questi anni, ho raccolto un discreto elenco di numeri di call center, che sul mio cellulare risultano bloccati: vorrei condividere questo elenco col mondo.

  • +39 02 91717963
  • +39 06 5234000
  • +421 905 980 837
  • +39 0984 1813200
  • +39 06 77788821
  • +39 334 1783204
  • +39 079 65896
  • +39 390 7965896
  • +39 055 12580
  • +39 055 05651
  • +39 055 12468
  • +39 06 91717963
  • +39 0931 45258
  • +39 011 2272094
  • +39 02 37901337
  • +39 0321 05423
  • +39 390 58615805
  • +39 055 3477890
  • +39 02 370704
  • +39 327 2614197
  • +39 0536 12469
  • +39 0744 56650
  • +39 0536 12548
  • +39 0183 25452
  • +39 0183 54755
  • +39 0171 45233
  • +39 070 0993385
  • +39 02 8877293
  • +39 346 7839954
  • +39 334 6134049
  • +39 0575 1656694
  • +39 045 6892
  • +39 06 449100
  • +39 342 5906416
  • +39 02 6855369
  • +39 02 45467864
  • +39 070 7348115
  • +39 393 333256580
  • +39 02 29532355
  • +39 06 97626255
  • +39 02 45901003
  • +39 06 94808988

Multa cum gaudio

A settembre sono andato a San Sebastián e Lisbona, rispettivamente per un meeting di NewsReader, il progetto europeo per cui lavoro, e per EMNLP, una conferenza internazionale sull’elaborazione del linguaggio naturale (nella quale presentavo un lavoro scritto insieme a Sara Tonelli dell’unità Digital Humanities di FBK).

Fatto sta che alle 4.26 di notte del 17 settembre tornavo a Bilbao per prendere il primo aereo per Lisbona. Potete immaginare quanto traffico ci fosse per strada, così ho (forse) pigiato un po’ troppo sull’acceleratore e ho visto un lampo luminoso. Puntuale come la morte è arrivata la multa, una simpatica raccomandata direttamente dal governo dei Paesi Baschi. Nell’inutile foto in alto potete vedere la targa della mia auto: il resto è buio (d’altra parte era notte, come già detto). Il mezzo era affittato, quindi in soli due mesi il governo basco è riuscito a verificare l’infrazione, contattare l’azienda di noleggio e inviarmi la comunicazione. È incredibile l’efficienza della cosa pubblica quando deve recuperare denaro.

Non andavo nemmeno troppo veloce. O meglio: secondo i limiti vigenti sì, ma noto con un velo di piacere che le idiozie nel gestire i limiti di velocità sono le medesime che si trovano in Italia: come fai a mettere un limite di 80 km/h in un tratto rettilineo di strada a 4 corsie solo per il fatto che è in galleria? Tra l’altro era notte, quindi il fatto che fosse in galleria rendeva la strada addirittura più illuminata e sicura.

Va be’, probabilmente l’autovelox si stava annoiando: stava per scattarsi un selfie, quando mi ha visto arrivare: non credeva alla sua macchina fotografica!

La multa era scritta tutta in due lingue (spagnolo e basco), come è prassi nelle zone del mondo dove la tensione tra governo centrale e governo locale è alle stelle. In questo caso, questi contrasti mi hanno permesso di capire almeno a che cosa si riferisse al documento, perché la parte in spagnolo è come fosse in italiano. No comment sul basco, completamente incomprensibile a chi non lo conosca direttamente.

La cosa divertente è che c’era un’unica parte scritta in inglese: quella sulle istruzioni per il pagamento. Il messaggio è chiaro: caro contribuente straniero, anche se non hai capito un cazzo di quello che hai fatto, sappi che devi pagare. La cosa strana è che quella parte era in inglese senza le controparti spagnola e basca. Mistero.

In conclusione, mi è andata bene: 50 euro per aver superato i limiti di 28 km/h. Sarebbero stati 100 in origine, ma si applica uno sconto del 50% se si paga entro 30 giorni. La stessa infrazione, in Italia, sarebbe costata almeno 50 euro in più, con uno sconto del 30% se pagata… subito! Chapeau alla Spagna.

 

Vegani? No, grazie!

Ho sempre avuto un po’ di pregiudizi nei confronti dei vegani, una sorta di razzismo per cui cerco di starne alla larga, in particolare a ore pasti.

Questa sera, però, volevo ricredermi e ho dato loro una possibilità di riscatto.

Ho deciso di andare a mangiare in un ristorante della catena Veggy Days. Già il nome dice tutto, soprattutto per il fatto che lo slogan è “il vegano dal sapore italiano”. Il nome “veggy days” mi fa venire in mente tutto fuorché un sapore italiano (o men che meno casereccio, bio, ecc.).

Inizio con un Chinotto. Vado pazzo per il Chinotto. Berrei Chinotto dal mattino alla sera. C’è un Chinotto bio: proviamolo!

Il Chinotto in questione è fatto da Galvanina, un’azienda orgogliosamente italiana che imbottiglia bibite biologiche dal 1910 (quando probabilmente tutte le bibite erano biologiche). Guardando gli ingredienti, noto subito che l’unico ingrediente biologico è lo zucchero. Mi sarei aspettato che lo fosse almeno il frutto del chinotto (presente per ben lo 0,2% del totale). Passando al gusto, potrei riprodurlo prendendo un chinotto commerciale (tipo Sanpellegrino) e aggiungendo acqua. Bocciato.
Costo: 4 euro, un’esagerazione. Nel frigo dove la cameriera l’ha preso campeggiava un’etichetta “3 euro”, e alla richiesta di spiegazioni mi è stato detto che al tavolo costa un euro in più. Manco fossimo in Piazza Duomo a Milano.

Pessimo inizio.

Il piatto principale è un hamburger denominato “spinacioso”, in cui il solito disco di carne trita è sostituito da una sorta di frittata di spinaci. Completano insalata, pomodori e maionese “veg”. Nel complesso non male, un prezzo ragionevole (6 euro), ma una capacità di saziare pari a una galletta di riso.

Il peggio arriva però con il dolce: veganisù, il tiramisù vegano. Ora, ammetto di essere stato un po’ ottimista nel pensare che un dolce con il 90% degli ingredienti a base di latte e uova potesse avere un fratello vegano all’altezza, ma la curiosità era troppa.
Mi arriva un oggetto dalla consistenza di una mousse bianca, priva di qualsiasi parte solida (ehi, nel tiramisù originale ci sono i savoiardi; sono biscotti, avete presente?) e privo di qualsivoglia sapore. Completamente moscio, inutile e molliccio. Costo: 5,80 euro, praticamente quanto l’hamburger.

Costo totale della cena: 21,80 euro in due.

In conclusione, cari vegani, vi ho dato una possibilità di farmi assaporare ciò di cui il mondo vegetale è capace, ma avete buttato questa opzione al vento. Continuo a pensare che la colpa sia della catena Veggy Days e non dei poveri vegetali; tuttavia continuerò a sfoggiare orgoglioso la mia maglietta anti-vegani, almeno fino al prossimo tentativo.

Isola di Man – Diario di viaggio/2

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(album di foto completo su Facebook)

La notte a Douglas è stata tranquilla. La differenza rispetto ai rumori di Liverpool è talmente tangibile che ho dormito come un sasso (ok, è vero, ero anche devastato dalla giornata precedente).

Sceso nella hall dell’albergo, scopro con sorpresa una colazione britannica che gusto come se non mangiassi da mesi. L’albergo di Liverpool, dove ho passato le tre notti precedenti, non offriva la colazione, quindi per amore dei miei colleghi italiani ho sempre mangiato all’italiana, da Starbucks o Costa. A parte i fagioli (serviti con una salsa che ha il gusto del ketchup, come da tradizione), tutto il resto era delizioso e preparatorio a un’altra giornata di peregrinazioni per l’isola.

La prima tappa della giornata è una delle mete turistiche più celebri dell’isola, la ruota di Laxey. Si tratta di un enorme mulino utilizzato per pompare fuori l’acqua dalle miniere di zinco durante tutto il XIX secolo. Con i suoi 22 metri di diametro, è il più grande mulino ad acqua ancora funzionante nel mondo. Durante la rivoluzione industriale, tirar fuori dalle montagne il materiale necessario per il funzionamento dei macchinari era una delle operazioni fondamentali, e la storia insegna che la Gran Bretagna (e di riflesso l’Isola di Man) è stata capostipite del genere. Tuttavia, le miniere avevano il difetto di riempirsi d’acqua a causa di piogge e allagamenti, pertanto erano state inventate pompe sofisticate per svuotarle. C’erano molti modi per alimentare queste pompe, principalmente i motori a carbone. Sull’isola, però, il carbone scarseggiava e doveva essere importato dalla terraferma, il ché faceva aumentare i costi di gestione di qualsiasi miniera. L’idea era quella di costruire un enorme mulino, che potesse sfruttare l’acqua che le frequenti piogge sull’isola fornivano in quantità copiosa.

Piccola nota di colore: in una delle rovine della struttura si è installata una colonia di api. Siccome questi piccoli animali sono molto preziosi e gli isolani lo sanno, questi ultimi hanno inserito un disclaimer per i turisti: “sì, lo sappiamo, ci sono le api; noi ci teniamo, però; quindi vedi di adattarti, perché non le scacceremo per far piacere a qualche facoltoso turista”. Ok, il cartello è in inglese e usa un tono più pacato e gentile, ma il senso è quello che ho scritto.

Purtroppo, il venerdì mattina la pompa è in manutenzione e non è possibile vederla in azione. L’addetta alla biglietteria, dopo l’usuale domanda sulla mia provenienza con conseguente faccia stupita, è molto gentile, tanto da scrivermi sul biglietto una autorizzazione a ritornare nel pomeriggio, quando la pompa verrà riaccesa. Nonostante i miei tentativi di ripensare la giornata, non risulterà fattibile. La userò come scusa per tornare da queste parti in futuro (e magari, da buon italiano, conserverò il biglietto per non dover pagare di nuovo).

Nei paraggi si trova un’attrazione dedicata ai più piccoli, con un giro in trenino dentro alle vecchie miniere. Nonostante la mia non più giovane età, mi incuriosisce, e il mio entusiasmo riceve un brusco arresto quando scopro che è fruibile solo di domenica.

Proprio mentre riprendo l’auto, inizia a piovigginare. Niente di ché, in realtà. La giornata non è certo partita con le migliori intenzioni, ma nel mio piano di viaggio sarebbe prevista la scalata (se così si può chiamare) sul monte Snaefell, alto circa 600 metri (partendo da 550, per essere onesti). La leggenda narra che nei giorni di sole splendente dalla cima del monte si possono vedere sei regni: Inghilterra, Irlanda, Scozia, Galles, Isola di Man e paradiso. Premesso che – mea culpa – non credo nell’esistenza dell’ultimo, sarei contento di vederne almeno un paio, invece mi arrendo all’idea che dal parcheggio a 50 metri dalla sommità non riesco a vedere nemmeno quest’ultima. Decido di non salire nemmeno sulla vetta (non c’è davvero un tubo), ma aspetto una decina di minuti che arrivi il folcloristico trenino elettrico che collega la montagna con Laxey, giusto per una foto. Nonostante si tratti di un treno storico tenuto in vita solamente per i turisti, mi stupisce per la lentezza. La partenza dalla cima è prevista per le 11.10, quindi mi aspetto di vederlo arrivare alla stazione intermedia (a 500 metri circa) dopo al massimo qualche minuto. La puntualità dei treni inglesi non è nemmeno in discussione, quindi quando alle 11.16 ancora non lo vedo arrivare dò per scontato che è stato annullato per brutto tempo. D’altra parte, la tipica pioggerellina britannica e il nebbione che mi circonda non inviterebbero nemmeno il turista più impavido ad avventurarsi verso la sommità di un monte di 600 metri dove non c’è nulla e non si vede un tubo. Metto in modo la macchina, quando vedo sbucare dal candore della nebbia (forse era questo il paradiso che gli antichi millantavano di poter vedere dalla sommità della montagna) un piccolo vagoncino. Sono le 11.19, e dall’andatura con cui si avvicina alla stazione capisco la definizione di “a passo d’uomo”. A posteriori, scoprirò che per il tragitto completo fino a Laxey (7 km) impiega 30 minuti: un corridore discretamente allenato può starci dietro senza fatica.

Mi dirigo a Douglas, di passaggio per raggiungere il sud dell’isola, per fare una capatina veloce al museo dedicato alla ferrovia elettrica dell’isola. Qui è doveroso un’altra piccola digressione riguardo ai trasporti su rotaia dell’isola. Fino alla metà del 1900, la ferrovia era ampiamente utilizzata, tanto da coprire ogni centro abitato dell’isola ed essere utilizzata dagli abitanti come mezzo di locomozione abituale. Col passare del tempo, la benzina ha fatto il suo corso e la ferrovia è finita in disuso. Un paio di linee sono state chiuse, e altre due sono rimaste aperte per miracolo. Negli anni Settanta, le aziende che gestivano le linee rimaste decidono di gettare la spugna e minacciano la cessazione del servizio. Il governo, come già detto in precedenza, si preoccupa dell’acquisto dell’intera infrastruttura e la trasforma in attrazione turistica. Sono rimaste operative in tutto tre linee: Douglas-Ramsey e Laxey-Snaefell (elettriche), e Douglas-Port Erin (a vapore). Fine della digressione.

Arrivato a Douglas, trovo facilmente la partenza della linea dove è collocata l’esposizione, anche grazie all’aiuto dell’enorme scritta “Electric Railway” posta sulla montagna a mo’ di Hollywood. Di nuovo il mio entusiasmo viene azzoppato quando scopro che il museo del treno elettrico è aperto solamente di domenica. Pazienza, oggi va così.

Saluto Douglas per l’ultima volta, faccio ancora qualche foto e mi avvio verso l’estremo sud dell’isola, per recuperare un po’ di attrazioni lasciate indietro il giorno precedente. Per strada, mi imbatto in una “House of rest for old horses”, una casa di riposo per cavalli. Nel mondo anglosassone è la norma, ma all’italiano medio che i cavalli è abituato a mangiarli fa un po’ strano.

Attraverso l’intera isola (impiegandoci la bellezza di 15 minuti) e approdo a Port Erin per una gita sul treno a vapore, con relativo museo. Arrivo intorno alle 12, ma il convoglio parte solamente alle 14, quindi inizio subito con il museo (relativamente piccolo, anche se grazioso). Sono fuori dopo mezz’ora, così mi butto in un supermercato alla ricerca di una prelibatezza locale: il sandwich inscatolato. Qualcuno potrà guardarmi con disprezzo e un po’ di compassione, ma certe cose vanno fatte nel luogo dove sono state inventate. Sono capaci tutti a prendere un sandwich nelle macchinette di FBK a Trento. Farlo all’Isola di Man ha tutto un’altro sapore, ti fa sentire parte del territorio. Aggiungo un succo d’arancio al mio pranzo, e mi dirigo verso una zona panoramica per consumarlo. A dirla tutta, il tempo di questa giornata non si intona molto con la parola “panoramica”, ma tant’è.

Arrivo in stazione qualche minuto prima delle 14. La biglietteria ha finalmente aperto i battenti, e acquisto il biglietto per il paese a fianco, Port St. Mary. Il tragitto è di un chilometro appena, e la scelta non è casuale: se il treno del ritorno ha un qualsiasi problema, posso tornare a piedi a recuperare l’auto. E poi, dai, per provare l’ebbrezza di salire su un treno a vapore che va a 30 all’ora direi che due chilometri (andata e ritorno) sono più che sufficienti.

Nella cittadina di Port St. Mary ho a disposizione una quarantina di minuti, giusto il tempo di farci un giretto e prendermi un caffè. Anche in questo senso la scelta dell’itinerario è provvidenziale, visto che ieri avevo saltato il paesello, per non sottrarre tempo ai due castelli, meta principale della gita. Tra l’altro a Port St. Mary non c’è davvero un tubo. Alla ripartenza per tornare a Port Erin, mi diletto nel registrare un video che riprende il treno in ingresso nella stazione, come a chiudere il cerchio iniziato dai Fratelli Lumière più di un centinaio di anni fa. Ok, forse me la sto un po’ tirando, però potrete giudicare il video voi stessi (e comunque è stato molto divertente anche solo pensarlo).

Da Port Erin mi avvicino all’aeroporto dove tra qualche ora mi aspetta il treno per il ritorno. Nell’attesa, vado a ri-cercare Rushen Abbey premunito di fotografia sul cellulare. Questa volta la trovo senz’ombra di dubbio: era a un centinaio di metri da dove il giorno prima brancolavo nel buio. Scopro così che il cartello (l’unico) che indica l’abbazia è stato spostato dal vento o da qualche buontempone, e ora punta verso l’uscita sbagliata della rotonda.

Le rovine dell’abbazia la dicono lunga sulla sua storia, le descrizioni dei pannelli raccontano di come doveva essere la vita da monaco cistercense al suo interno a partire dal XII secolo. Il medioevo sarà pur stato un periodo buio per la scienza, ma ci ha regalato parecchio gioielli architettonici che non pensavo fossero tecnicamente possibili in quel periodo. La mia visita termina bruscamente alle 16, dopo solo mezz’ora, perché l’abbazia chiude (sic!). Non che ci fossero i presupposti per passare lì dentro l’intera giornata, ma qualche decina di minuti in più mi avrebbero fatto apprezzare meglio alcuni particolari spiegati nei pannelli a latere delle rovine.

Non mi resta altro che tornare in aeroporto, dove mi aspettano due ore di lunga attesa (paradossale: avrei avuto tutto il tempo di visitare l’abbazia, il sole da queste parti ad aprile tramonta alle 21, ma tutto chiude alle 16). Mi ritrovo a consegnare la mia fedele compagna di viaggio, e a trarre qualche conclusione su come si vive la strada dalla parte opposta. Nell’ordine, la mia top-3 delle cose più strane è: (iii) non si sa mai dove guardare agli incroci, e nel dubbio si guarda in tutte le direzioni (anche in alto), scatenando una pacata rabbia inglese nelle macchine dietro; (ii) le rotonde, che sono riuscito a non sbagliare mai, ma che ogni volta fa perdere quei 2/3 secondi per pensare a come gestirla; (i) la marcia, che si trova dall’altra parte, e prima di abituarsi a staccare dal volante la mano giusta ci sono voluti giusto due giorni.

Sono molto soddisfatto della gita, ho visitato tutti i luoghi che mi ero prefissato, approfittando anche di qualche sorpresa non preventivata. Isola di Man fatta, segno di spunta scritto, meta consigliata a chiunque voglia trascorrere un paio di giorni diversi dalla solita vacanza.

Isola di Man – Diario di viaggio/1

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È da un po’ che non scrivo sul mio blog, e un viaggio di due giorni sull’Isola di Man mi sembra la scusa giusta per svecchiarlo un po’. Trovate le foto dei paesaggi descritti sul mio profilo Facebook, nel relativo album.

Partenza la mattina presto del 23 aprile dall’aeroporto John Lennon di Liverpool, dove mi trovavo per lavoro. Quale modo migliore di iniziare questa piccola vacanza se non con una frase come “above us only sky”, glossa che campeggia sotto il logo dell’aeroporto britannico? All’interno dell’edificio principale, per allietare l’attesa dei viaggiatori, una serie di pannelli ricordano le più celebri canzoni di Lennon e dei Beatles, arricchite da preziose fotografie che riportano gli spettatori agli anni Sessanta e Settanta.

L’aereo che mi appresto a prendere è molto piccolo, dimensionato all’isola; tuttavia la cosa che mi stupisce di più sono le due eliche sui lati. Non avevo mai preso un turboelica. Già mi immaginavo un viaggio in pieno stile avventuroso, invece è stato talmente tranquillo che se mi avessero bendato non avrei minimamente sospettato che fosse un aereo radicalmente diverso da quelli con cui ho viaggiato in passato.

All’arrivo sull’isola, mi reco immediatamente allo sportello di Athol Car Hire, l’azienda dove qualche giorno prima ho prenotato il bolide che mi terrà compagnia per i prossimi due giorni. Mi si para davanti un tizio sulla sessantina, che mi scruta attentamente dall’alto in basso. Se il mio abbigliamento appare scialbo e “particolare” in Italia, potete immaginare come deve essere sembrato a un vero britannico. Iniziamo con le pratiche per il noleggio, che si concludono piuttosto velocemente con una pre-autorizzazione di 800 sterline (1.100 euro) sulla mia carta di credito, giusto per precauzione. Meno male che avevo fatto l’assicurazione aggiuntiva per gli incidenti, altrimenti avrei dovuto attivare un mutuo per affittare un’auto. Sbrigate le pratiche, il tizio mi pone un’ultima domanda, sospetta: “Ha già una prenotazione in albergo per la notte?”. “Certo che ce l’ho”, rispondo io. “Potrei vederla?”, mi chiede subito dopo. Perché mai un tizio dovrebbe chiedermi la prenotazione alberghiera? Se mi volesse vendere lui stesso una proposta convenzionata con l’autonoleggio, non insisterebbe, invece vuole che gli faccia vedere la cacchio di prenotazione. “Ecco qui”, e gliela mostro. “Ok”, mi dice lui, e mi dà le chiavi della macchina. Mi ci vuole qualche minuto per realizzare il motivo di tanta curiosità: sono italiano, vestito come mi vesto sempre, piuttosto giovane; mi gioco le palle che aveva il terrore che passassi la notte dormendo in auto!

Nel frattempo, arriva il solito messaggino del mio operatore telefonico, che in soldoni mi dice: “se vuoi telefonare e mandare messaggi puoi farlo tranquillamente, ma se ti viene anche solo lontanamente in mente di navigare su internet sappi che te ne pentirai amaramente”. Lo so, sarebbe stato più breve riportare le tariffe, ma così rende meglio l’idea. Black out di internet, quindi. Resisterò.

Nel posteggio dell’aeroporto trovo l’auto con il serbatoio quasi vuoto: la policy di Athol è quella di fornire l’auto con 8 sterline di benzina (che si pagano al momento del ritiro dell’auto), e la raccomandazione di restituirla con il serbatoio vuoto: tutta la benzina rimasta viene persa. La strategia usata da tutto il resto del mondo è esattamente opposta (ti dò l’auto piena, ridammela piena) così nessuno ci smena nulla, ma secondo me con questo sistema si rasenta la truffa: chi è che si arrischia a fare in modo di avere la macchina quasi vuota prima della restituzione?

L’auto è una Nissan Note rossa praticamente nuova, un inizio niente male. Prima di uscire dal parcheggio, cerco di prendere familiarità col veicolo, in particolare col fatto che la guida è dalla parte opposta. Con molta tranquillità esco dal parcheggio dell’aeroporto e indirizzo il mio nuovo bolide alla volta dell’Isola di St. Michael, prima tappa del mio giro dell’isola, a due passi dall’aeroporto. A dirla tutta, l’isoletta in questione non è più un’isola, bensì una penisola, collegata con un passaggio artificiale al resto della terraferma (se così si può chiamare, visto che anche l’Isola di Man è a sua volta un’isola, ma chi può negare che anche l’Eurasiafrica sia un’enorme isola? Va be’, ci siamo capiti). Prima di arrivare a destinazione, devo attraversare un campo da golf (con tanto di cartello triangolare di pericolo “attenzione alle palline da golf”) e costeggiare un vecchio e gigantesco albergo abbandonato, degno dei peggiori abusi edilizi tipici del nostro paese. Sulla penisola trovo il rudere di una chiesetta del XII secolo e un fortino circolare di costruzione più recente.

Nella prima ora di permanenza sull’Isola di Man, l’attenzione cade prevalentemente sulla vegetazione, prettamente marina ma diversa da quella cui sono abituato in Italia, più palustre e pregna di odori (non sempre piacevoli). La fauna, fatta prevalentemente di volatili, convive senza troppi intoppi con la popolazione locale.

Memore della regola sul carburante, vado subito a cercare un distributore, e investo le mie prime 20 sterline. Mi sembrano una cifra ragionevole, ma me ne pentirò. Il benzinaio, come tutto sull’isola, ne contiene nel logo il simbolo: il triscele, tre gambe messe a spirali intrecciate.

La tappa successiva è Castletown, un paesello di qualche migliaio di anime subito a ridosso dell’aeroporto (per dare l’idea: se non avessi avuto un’auto, l’avrei raggiunto a piedi in una ventina di minuti al massimo). Arroccato sul mare, deve il nome al suo castello del 1200 in ottimo stato di conservazione.

Metto un attimo in pausa il racconto, perché è necessaria una piccola digressione sui parcheggi (per i meno “nerd” del tema, basta saltare questo capoverso). Prima di iniziare la gita, immaginavo sarebbe stato complicato posteggiare la macchina a ridosso dei centri, specialmente se storici e molto turistici, ma arrivato sull’isola mi sono reso conto che – tolta la città più grande – nessun centro abitato ha più di qualche migliaio di abitanti, quindi parcheggiare “fuori città” può voler dire al massimo una passeggiata di cinque minuti. Se la pigrizia prende il sopravvento, si può sempre optare per i posteggi in centro, che nel peggiore dei casi consistono in un disco orario di 90 minuti. Gli isolani devono tenere molto a questo particolare, perché sotto al limite è esplicitato anche il periodo oltre il quale è concesso posteggiare di nuovo nella stessa zona. Per esempio, a Port Erin (di cui parlerò successivamente) il disco orario è di 90 minuti, con possibile ritorno solamente dopo due ore (mi piacerebbe capire come controllano questo aspetto, ma non vorrei divagare troppo). L’altro aspetto particolare riguarda i disabili: i loro posteggi sono molti di più rispetto a quelli che vedo in Italia (e già mi sembravano un’infinità), sono sempre vuoti (come in Italia), e devono rispettare la zona disco, se prevista. Sostare negli spazi a loro dedicati senza esporre il tagliando può comportare una multa di 500 sterline (circa 700 euro), secondo me un po’ spropositata. Fine della digressione sui parcheggi.

Castletown, si diceva. Dopo aver mollato la macchina in zona disco (praticamente in centro, da vero pelandrone doc) mi sono subito fiondato a vedere il castello. Usato prima per scopi difensivi, poi come prigione femminile, è stato sempre mantenuto in condizioni da essere fruibile, e così è arrivato fino al XX secolo, quando ha smesso la sua funzione offensiva ed è stato acquistato dal governo dell’Isola di Man per diventare la principale destinazione dei turisti nella zona. L’acquisto di beni da parte del governo per una trasformazione in attrazione turistica è avvenuto nel corso del secolo scorso per la quasi totalità dei luoghi da preservare: castelli, ferrovie, miniere, rovine di vecchi luoghi di culto, e così via. In una cultura – come quella anglosassone – che ha spostato molto presto i servizi pubblici nel settore privato si tratta sicuramente di un fatto in controtendenza.

Alla biglietteria del castello l’addetta mi chiede la mia provenienza, e dopo che rispondo “Italy” vedo una sorta di sguardo di stupore, che immagino venga insegnato ai corsi per “addetto al turismo” ogniqualvolta qualcuno dichiara di non essere un residente (a esclusione forse dei britannici, cui gli isolani sono imparentati).

Il giro del monumento dura circa un’ora, quindi sono ampiamente in tempo per gironzolare per il centro di Castletown. Niente di ché, ma almeno posso mettere un bel timbro “fatto” e passare alla prossima città. Non avendo ancora capito bene quanto le distanze sull’isola siano irrisorie, decido di andare a Ballasalla, nelle immediate vicinanze, un insieme di case (chiamarlo anche solo “paesello” sarebbe eccessivo) che nasconde un’abbazia del XII secolo, Rushen Abbey. Ho usato il termine “nasconde” perché al primo giro non sono riuscito a trovarla. Da una parte la totale assenza di indicazioni, dall’altro l’impossibilità di usare internet, dopo una mezz’ora di giri (ricordo che trattasi di un insieme di case che a confronto Povo potrebbe apparire come una metropoli) mi arrendo alla stupidità di non aver acquistato una mappa dettagliata dell’isola e volgo il muso della mia Nissan verso sud.

La prossima destinazione è la punta più meridionale dell’isola, dove un paio di isolotti staccati dal corpo principale formano una cornice suggestiva. Per non perdere nemmeno un cent (anzi, un penny) dai possibili turisti, nel punto più panoramico è stato costruito un ristorante con veranda, “The sound”. Una capatina in quell’angolo di paradiso è doverosa da qualunque visitatore con un po’ di sale in zucca: la vista lascia senza fiato, soprattutto in una giornata di sole come quella. Per completezza, mi sono incamminato verso la sommità della collina, così da poter fare qualche ultima foto. Un residente della zona si offre di darmi uno strappo (la salita non è molto confortevole) e, prima che io capisco che lui non ha capito, mi ritrovo in mezzo a campi di fiori gialli e pecore di ogni specie, a più di un chilometro dalla punta e – soprattutto – dalla macchina. Poco male: mi godo la splendida giornata, scatto qualche foto a flora e fauna e, soprattutto, mi faccio una passeggiata rigorosamente in discesa.

Riparto alla volta di Port Erin, cittadina marittima a una decina di chilometri, per visitare il museo dei treni a vapore. Arriva qui la seconda delusione, derivante soprattutto dalla (mia) superficialità nel programmarmi le tappe: il museo è aperto solamente nei giorni in cui la ferrovia è funzionante. Ovviamente la ferrovia non è funzionante, tant’è che il giro sul treno a vapore è previsto per il giorno successivo, ma dall’altro capolinea. Questo intoppo mi farà cambiare i piani, per inserire un repentino ritorno a Port Erin, non previsto inizialmente. Il fatto che io stia nel frattempo iniziando a comprendere quanto le distanze siano vicine mi avvantaggerà in queste correzioni in fieri, e la vicinanza con l’aeroporto incentiva ulteriormente.

Tappa successiva: Peel, una delle città più grandi dell’isola, popolata da ben 5mila persone (Lavis, in provincia di Trento, ne conta 8mila, per capirci). Nonostante le apparenze, è provvista di un castello, ben tre musei e dell’unica cattedrale di tutta l’isola. Sono sempre più stupito di quanto le realtà piccole non siano confrontabili con insiemi di abitanti simili in realtà più grandi. Dove trovo tre musei, un castello e una cattedrale a Lavis?

Durante il viaggio, per la prima volta mi imbatto in una delle strade percorse dalla celebre gara di moto dell’isola. Cartelli a distanze regolari ne indicano le varie prove: curve, rettilinei, tornanti, ecc.

In città, decido di dedicarmi al castello e a un giretto per il centro in modo da vedere la cattedrale, per restare in ottica vacanziera e risparmiarmi un tour de force da turista a caccia di musei. Il castello di Peel si trova sopra quella che in origina era un’isola, attualmente collegata invece con la terraferma attraverso un terrapieno (similmente all’Isola di St. Michael, ricordate?). Le sue rovine (purtroppo non è stato conservato come quello di Castletown) ne lasciano intravedere la maestosità, mentre l’audioguida fornita all’ingresso permette di tornare indietro nel tempo di qualche secolo rivedendo con l’immaginazione le decine di parti di cui era composto e rivivendo gli eventi di cui è stato protagonista. Piccola nota di colore: la tizia della biglietteria mi ha di nuovo chiesto la mia provenienza; ho rivisto la faccia stupita della collega di Castletown. È così strano arrivare dall’Italia?

Il resto di Peel non è tanto diverso da un generico borgo che si affaccia sul mare. Vista la tarda ora (si erano ormai già fatte le due di pomeriggio) mi fermo in un locale per un pranzo tipico della zona: hamburger con patate fritte. Una veloce ricognizione della cattedrale concludono la mia permanenza nell’ameno paesino.

Data la levataccia delle sei di mattina, la stanchezza inizia a farsi sentire; tuttavia la giornata è solo a metà e ho in programma almeno un’altra tappa: si tratta di Ramsey, l’unica cittadina nel nord dell’isola che merita un giretto. Alle sue porte si trova la Miltown House, una splendida villa ottocentesca contornata da un rigoglioso giardino. Sono le 16.30 e mi sembra molto appropriato un tè. La regola vorrebbe le cinque del pomeriggio, ma a quell’ora il bar chiude, come la maggior parte di qualsiasi esercizio commerciale della Gran Bretagna, il ché mi fa molto dubitare sul detto suddetto (permettetemi il gioco di parole). Mezz’ora di pausa sono il ristoro perfetto per riprendere fiato e placare un pochino la stanchezza. All’uscita, mi imbatto in uno strano oggetto simile a un robot aspirapolvere che, invece di aspirare, taglia il prato. Sui prati, con gli inglesi non c’è da scherzare. A parte quel piccolo ristoratore angolo di paradiso, Ramsey non è un gran ché. La gironzolo velocemente permettendomi l’acquisto di un turisticissimo strofinaccio da cucina con la mappa dell’isola, e poi via di corsa verso Douglas, dove mi aspetta l’albergo.

Nel tragitto, in prossimità del monte Snaefell (che con i suoi 600 metri è il rilievo più alto dell’isola), becco la coda dovuta a un incidente. Perdo una buona mezz’ora per tornare a Ramsey e prendere una strada alternativa. Arrivo a Douglas esausto, parcheggio di fronte all’albergo e una volta ottenuta la chiave della stanza mi butto sul letto, dove rimango per un’ora abbondante. Quando mi riprendo dal sonnellino ristoratore, sono pronto per procacciarmi la cena. Le lucine del mio cervello dicono che il bisogno di cibo sano è impellente. Mi butto alla ricerca di un supermercato, che trovo subito (uno Spar, parente dell’italiano Despar). Per certi tipi di articoli, non bisogna guardare i prezzi, ma soprattutto le etichette. Ci sono mele dell’Alto Adige, uva del Sud Africa, banane del Belize e mandarini del Marocco. Capisco che l’Isola di Man non si presta più di tanto alla coltivazione della frutta, però l’Inghilterra offre parecchia scelta. Va be’, non posso permettermi di fare lo schizzinoso e opto per le banane (anche quelle vendute in Italia arrivano da in culo al mondo, quindi c’è poco da lamentarsi). Prendo anche un paio di succhi che – etichetta docet – sono composti al 100% di frutta. Britannica.

Il tour prosegue. Con i suoi 30mila abitanti, Douglas è la città più grande dell’isola. Ospita tutti gli edifici governativi, le banche e le catene che ci si aspetta di trovare al centro di una città “occidentale”. C’è pure il negozio della Croce Rossa. Io, in particolare, sono alla ricerca della sede di Canonical, l’azienda che sviluppa Ubuntu e che ha sede proprio a Douglas. Tuttavia, all’indirizzo millantato sul sito non c’è nulla che indichi la loro presenza. Grande delusione, soprattutto dopo 25 minuti di camminata a piedi. Mi consolo con una piccantissima cena al ristorante indiano, seguita da un’interminabile passeggiata per tornare all’albergo.

Prima di addormentarmi, placo la mia crisi di astinenza da internet e smaltisco un po’ di posta elettronica. Quello che segue è sonno, tanto sonno.

L’anno che verrà

Con la chiusura del 2014, tante cose verranno messe in soffitta. Per me, personalmente; ma anche per l’Italia.

È stato anche fin troppo chiaro il nostro Presidente che ieri, nel suo ultimo saluto alla popolazione, ha da una parte confermato la situazione problematica in cui verte il nostro paese, e dall’altra ci ha voluto allietare con gli esempi virtuosi di cui l’Italia si fa portatrice: Samantha Cristoforetti (che ci saluta dalla Stazione Spaziale Internazionale), Fabiola Gianotti (il nuovo direttore cel CERN), Fabrizio (il medico di Emergency impegnato per la lotta contro Ebola, in via di guarigione) e molti altri. Fa specie, e rende ancor più orgogliosi, che molti di questi esempi facciano parte della metà femminile del paese, ultimamente maltrattata e trascurata. Anche tra i candidati per sostituire Giorgio Napolitano c’è una donna di spessore: Emma Bonino. Caldeggerò per la sua candidatura, anche se per questa elezione, “ognuno vale zero”, ché tanto votano solo i parlamentari.

A parte la digressione di orgoglio italico, purtroppo, il resto del discorso conteneva troppe parole di finta speranza che ormai non fanno più effetto. Come in “L’anno che verrà”, di Lucio Dalla. Nel 1979 l’Italia usciva dagli anni di piombo ma ancora non lo sapeva, l’inflazione galoppava e non si vedeva un futuro certo. Bisognava creare dei sogni artificiali, e la TV era lì allo scopo. Con la sovraesposizione di informazioni cui siamo sottoposti ogni giorno grazie a internet, nel 2014 agli sgoccioli non ci rimangono neppure più le fantasticherie dei media, e i nostri sogni ce li dobbiamo creare da soli.

Ma la televisione ha detto che il nuovo anno
porterà una trasformazione
e tutti quanti stiamo già aspettando
[… lista di figate previste dal nuovo anno …]
vedi, caro amico, cosa si deve inventare
per poterci ridere sopra,
per continuare a sperare.
[…]
L’anno che sta arrivando tra un anno passerà
io mi sto preparando, è questa la novità.

Siamo forti e preparati per sopravvivere per tutto questo 2015, solo per attendere l’anno successivo.

It’s over, iFixit?

Ho sempre acquistato/usato volentieri prodotti Apple, perché durano di più, sono più pratici e funzionano meglio. Inoltre, anche se è un fattore marginale, sono… belli!

Tuttavia, una delle politiche che sempre ho criticato dell’azienda di Cupertino è stato il suo essere poco ecologica. Già nel 2006 Greenpeace aveva lanciato la campagna “Green my apple“, in maniera peraltro molto soft se confrontata con le usuali campagne dell’associazione, per sottolineare la stima di Greenpeace verso l’azienda americana. All’epoca, Apple sembrava aver colto il problema, e si era premurata di predisporre una pagina web che spiegasse quanto i suoi dispositivi fossero “green”.

Quindi mi è crollato un mondo quando ho visto l’home page di iFixit, un popolare negozio online dove si possono trovare manuali per disassemblare i vari dispositivi Apple nonché i pezzi di ricambio che possano allungare la vita a un iPhone con lo schermo rigato, a un Mac con una batteria poco durevole e così via. Sarebbe stato acquisito da Apple!

Poi, però, ho letto lo slogan in prima pagina e non ho più avuto dubbi:

Why “fix it yourself”when you can upgrade? No need to waste time repairing your Apple device. Upgrade it instead. With iFixit’s help, there will always be a newer, better device for sale. (Perché aggiustarselo per conto proprio, quando puoi aggiornarlo? Non c’è bisogno di perdere tempo per riparare il tuo device Apple. Aggiornalo, invece. Con l’aiuto di iFixit, ci sarà sempre in vendita un dispositivo più nuovo e migliore)

Buon primo aprile a tutti!

Dal riciclo al riuso

La plastica è comoda, e su questo (purtroppo) non c’è alcun dubbio. Però il suo utilizzo indiscriminato è una piaga della nostra società, che nessuno è ancora riuscito a contrastare. Io ho un’idea, che vorrei venisse discussa, per capire se è fattibile oppure no.

Attualmente compro quasi sempre bibite in bottiglia di vetro in una catena di supermercati che utilizza sistemi di vetro a rendere. L’idea è semplice: io compro la bibita a 75 centesimi, la consumo, poi riporto il vetro e mi vengono restituiti 15 centesimi. Il sistema è paradossalmente ancora migliore del riciclaggio, perché fa sì che la medesima bottiglia venga usata più volte. Essendo poi in vetro, ha una vita praticamente eterna. Le persone più vetuste sogghigneranno nella consapevolezza che il sistema era ampiamente utilizzato prima della diffusione a basso costo della plastica: spesso tornare sui propri passi non è sinonimo di arretratezza, ma di ammissione che una certa direzione si è rivelata sbagliata.

Il nemico della diffusione di questa idea è che il vetro pesa, e il lavaggio costa. Più di quanto non costi imbottigliare nella plastica. Ecco quindi la proposta.

  • Le bottiglie di plastica devono venire tassate in una misura che ne parifichi il prezzo con l’uso del vetro (possibilmente a rendere). Chi vuole acquistare la plastica per praticità (magari per fare una festa in un luogo distante dal supermercato dove acquista la bevanda) può continuare a farlo, con un piccolo sovrapprezzo.
  • L’azienda che produce bibite *deve* obbligatoriamente fornire (almeno oltre una certa capacità del contenitore, per esempio un litro) anche l’alternativa in vetro, possibilmente a rendere.

Vantaggi:

  • Il primo punto garantisce un introito (per lo stato e/o l’ente pubblico) utilizzabile per i costi di riciclo/smaltimento della plastica.
  • Il secondo punto garantisce al consumatore la possibilità di fare una scelta consapevole: se compro le bevande per l’uso quotidiano, posso usare il vetro; se invece mi serve al volo la praticità (indubbia) della plastica, posso continuare a usufruirne, ma a un prezzo maggiorato.
  • Sarebbe incentivato l’utilizzo di acqua del rubinetto, poiché il costo dell’acqua in bottiglia di plastica, ora molto basso, diventerebbe meno sostenibile.
  • La legge sarebbe a svantaggio più delle grandi aziende (praticamente monopoliste, come Nestlè per l’acqua, Coca-cola per le bibite, ecc.) rispetto alle piccole, che più probabilmente stanno già usando sistemi di vetri a rendere.

Non è niente di diverso rispetto a quello che già viene fatto per fumo e alcool: siccome esistono delle conseguenze, è giusto che l’acquirente si prenda carico delle spese. Che si tratti di costi medici o ambientali, sempre di costi si parla.

Update. Ho appena scoperto che alcuni supermercati hanno testato il sistema del vuoto a rendere anche per la plastica. [Il Fatto Alimentare]