È da un po’ che non scrivo sul mio blog, e un viaggio di due giorni sull’Isola di Man mi sembra la scusa giusta per svecchiarlo un po’. Trovate le foto dei paesaggi descritti sul mio profilo Facebook, nel relativo album.
Partenza la mattina presto del 23 aprile dall’aeroporto John Lennon di Liverpool, dove mi trovavo per lavoro. Quale modo migliore di iniziare questa piccola vacanza se non con una frase come “above us only sky”, glossa che campeggia sotto il logo dell’aeroporto britannico? All’interno dell’edificio principale, per allietare l’attesa dei viaggiatori, una serie di pannelli ricordano le più celebri canzoni di Lennon e dei Beatles, arricchite da preziose fotografie che riportano gli spettatori agli anni Sessanta e Settanta.
L’aereo che mi appresto a prendere è molto piccolo, dimensionato all’isola; tuttavia la cosa che mi stupisce di più sono le due eliche sui lati. Non avevo mai preso un turboelica. Già mi immaginavo un viaggio in pieno stile avventuroso, invece è stato talmente tranquillo che se mi avessero bendato non avrei minimamente sospettato che fosse un aereo radicalmente diverso da quelli con cui ho viaggiato in passato.
All’arrivo sull’isola, mi reco immediatamente allo sportello di Athol Car Hire, l’azienda dove qualche giorno prima ho prenotato il bolide che mi terrà compagnia per i prossimi due giorni. Mi si para davanti un tizio sulla sessantina, che mi scruta attentamente dall’alto in basso. Se il mio abbigliamento appare scialbo e “particolare” in Italia, potete immaginare come deve essere sembrato a un vero britannico. Iniziamo con le pratiche per il noleggio, che si concludono piuttosto velocemente con una pre-autorizzazione di 800 sterline (1.100 euro) sulla mia carta di credito, giusto per precauzione. Meno male che avevo fatto l’assicurazione aggiuntiva per gli incidenti, altrimenti avrei dovuto attivare un mutuo per affittare un’auto. Sbrigate le pratiche, il tizio mi pone un’ultima domanda, sospetta: “Ha già una prenotazione in albergo per la notte?”. “Certo che ce l’ho”, rispondo io. “Potrei vederla?”, mi chiede subito dopo. Perché mai un tizio dovrebbe chiedermi la prenotazione alberghiera? Se mi volesse vendere lui stesso una proposta convenzionata con l’autonoleggio, non insisterebbe, invece vuole che gli faccia vedere la cacchio di prenotazione. “Ecco qui”, e gliela mostro. “Ok”, mi dice lui, e mi dà le chiavi della macchina. Mi ci vuole qualche minuto per realizzare il motivo di tanta curiosità: sono italiano, vestito come mi vesto sempre, piuttosto giovane; mi gioco le palle che aveva il terrore che passassi la notte dormendo in auto!
Nel frattempo, arriva il solito messaggino del mio operatore telefonico, che in soldoni mi dice: “se vuoi telefonare e mandare messaggi puoi farlo tranquillamente, ma se ti viene anche solo lontanamente in mente di navigare su internet sappi che te ne pentirai amaramente”. Lo so, sarebbe stato più breve riportare le tariffe, ma così rende meglio l’idea. Black out di internet, quindi. Resisterò.
Nel posteggio dell’aeroporto trovo l’auto con il serbatoio quasi vuoto: la policy di Athol è quella di fornire l’auto con 8 sterline di benzina (che si pagano al momento del ritiro dell’auto), e la raccomandazione di restituirla con il serbatoio vuoto: tutta la benzina rimasta viene persa. La strategia usata da tutto il resto del mondo è esattamente opposta (ti dò l’auto piena, ridammela piena) così nessuno ci smena nulla, ma secondo me con questo sistema si rasenta la truffa: chi è che si arrischia a fare in modo di avere la macchina quasi vuota prima della restituzione?
L’auto è una Nissan Note rossa praticamente nuova, un inizio niente male. Prima di uscire dal parcheggio, cerco di prendere familiarità col veicolo, in particolare col fatto che la guida è dalla parte opposta. Con molta tranquillità esco dal parcheggio dell’aeroporto e indirizzo il mio nuovo bolide alla volta dell’Isola di St. Michael, prima tappa del mio giro dell’isola, a due passi dall’aeroporto. A dirla tutta, l’isoletta in questione non è più un’isola, bensì una penisola, collegata con un passaggio artificiale al resto della terraferma (se così si può chiamare, visto che anche l’Isola di Man è a sua volta un’isola, ma chi può negare che anche l’Eurasiafrica sia un’enorme isola? Va be’, ci siamo capiti). Prima di arrivare a destinazione, devo attraversare un campo da golf (con tanto di cartello triangolare di pericolo “attenzione alle palline da golf”) e costeggiare un vecchio e gigantesco albergo abbandonato, degno dei peggiori abusi edilizi tipici del nostro paese. Sulla penisola trovo il rudere di una chiesetta del XII secolo e un fortino circolare di costruzione più recente.
Nella prima ora di permanenza sull’Isola di Man, l’attenzione cade prevalentemente sulla vegetazione, prettamente marina ma diversa da quella cui sono abituato in Italia, più palustre e pregna di odori (non sempre piacevoli). La fauna, fatta prevalentemente di volatili, convive senza troppi intoppi con la popolazione locale.
Memore della regola sul carburante, vado subito a cercare un distributore, e investo le mie prime 20 sterline. Mi sembrano una cifra ragionevole, ma me ne pentirò. Il benzinaio, come tutto sull’isola, ne contiene nel logo il simbolo: il triscele, tre gambe messe a spirali intrecciate.
La tappa successiva è Castletown, un paesello di qualche migliaio di anime subito a ridosso dell’aeroporto (per dare l’idea: se non avessi avuto un’auto, l’avrei raggiunto a piedi in una ventina di minuti al massimo). Arroccato sul mare, deve il nome al suo castello del 1200 in ottimo stato di conservazione.
Metto un attimo in pausa il racconto, perché è necessaria una piccola digressione sui parcheggi (per i meno “nerd” del tema, basta saltare questo capoverso). Prima di iniziare la gita, immaginavo sarebbe stato complicato posteggiare la macchina a ridosso dei centri, specialmente se storici e molto turistici, ma arrivato sull’isola mi sono reso conto che – tolta la città più grande – nessun centro abitato ha più di qualche migliaio di abitanti, quindi parcheggiare “fuori città” può voler dire al massimo una passeggiata di cinque minuti. Se la pigrizia prende il sopravvento, si può sempre optare per i posteggi in centro, che nel peggiore dei casi consistono in un disco orario di 90 minuti. Gli isolani devono tenere molto a questo particolare, perché sotto al limite è esplicitato anche il periodo oltre il quale è concesso posteggiare di nuovo nella stessa zona. Per esempio, a Port Erin (di cui parlerò successivamente) il disco orario è di 90 minuti, con possibile ritorno solamente dopo due ore (mi piacerebbe capire come controllano questo aspetto, ma non vorrei divagare troppo). L’altro aspetto particolare riguarda i disabili: i loro posteggi sono molti di più rispetto a quelli che vedo in Italia (e già mi sembravano un’infinità), sono sempre vuoti (come in Italia), e devono rispettare la zona disco, se prevista. Sostare negli spazi a loro dedicati senza esporre il tagliando può comportare una multa di 500 sterline (circa 700 euro), secondo me un po’ spropositata. Fine della digressione sui parcheggi.
Castletown, si diceva. Dopo aver mollato la macchina in zona disco (praticamente in centro, da vero pelandrone doc) mi sono subito fiondato a vedere il castello. Usato prima per scopi difensivi, poi come prigione femminile, è stato sempre mantenuto in condizioni da essere fruibile, e così è arrivato fino al XX secolo, quando ha smesso la sua funzione offensiva ed è stato acquistato dal governo dell’Isola di Man per diventare la principale destinazione dei turisti nella zona. L’acquisto di beni da parte del governo per una trasformazione in attrazione turistica è avvenuto nel corso del secolo scorso per la quasi totalità dei luoghi da preservare: castelli, ferrovie, miniere, rovine di vecchi luoghi di culto, e così via. In una cultura – come quella anglosassone – che ha spostato molto presto i servizi pubblici nel settore privato si tratta sicuramente di un fatto in controtendenza.
Alla biglietteria del castello l’addetta mi chiede la mia provenienza, e dopo che rispondo “Italy” vedo una sorta di sguardo di stupore, che immagino venga insegnato ai corsi per “addetto al turismo” ogniqualvolta qualcuno dichiara di non essere un residente (a esclusione forse dei britannici, cui gli isolani sono imparentati).
Il giro del monumento dura circa un’ora, quindi sono ampiamente in tempo per gironzolare per il centro di Castletown. Niente di ché, ma almeno posso mettere un bel timbro “fatto” e passare alla prossima città. Non avendo ancora capito bene quanto le distanze sull’isola siano irrisorie, decido di andare a Ballasalla, nelle immediate vicinanze, un insieme di case (chiamarlo anche solo “paesello” sarebbe eccessivo) che nasconde un’abbazia del XII secolo, Rushen Abbey. Ho usato il termine “nasconde” perché al primo giro non sono riuscito a trovarla. Da una parte la totale assenza di indicazioni, dall’altro l’impossibilità di usare internet, dopo una mezz’ora di giri (ricordo che trattasi di un insieme di case che a confronto Povo potrebbe apparire come una metropoli) mi arrendo alla stupidità di non aver acquistato una mappa dettagliata dell’isola e volgo il muso della mia Nissan verso sud.
La prossima destinazione è la punta più meridionale dell’isola, dove un paio di isolotti staccati dal corpo principale formano una cornice suggestiva. Per non perdere nemmeno un cent (anzi, un penny) dai possibili turisti, nel punto più panoramico è stato costruito un ristorante con veranda, “The sound”. Una capatina in quell’angolo di paradiso è doverosa da qualunque visitatore con un po’ di sale in zucca: la vista lascia senza fiato, soprattutto in una giornata di sole come quella. Per completezza, mi sono incamminato verso la sommità della collina, così da poter fare qualche ultima foto. Un residente della zona si offre di darmi uno strappo (la salita non è molto confortevole) e, prima che io capisco che lui non ha capito, mi ritrovo in mezzo a campi di fiori gialli e pecore di ogni specie, a più di un chilometro dalla punta e – soprattutto – dalla macchina. Poco male: mi godo la splendida giornata, scatto qualche foto a flora e fauna e, soprattutto, mi faccio una passeggiata rigorosamente in discesa.
Riparto alla volta di Port Erin, cittadina marittima a una decina di chilometri, per visitare il museo dei treni a vapore. Arriva qui la seconda delusione, derivante soprattutto dalla (mia) superficialità nel programmarmi le tappe: il museo è aperto solamente nei giorni in cui la ferrovia è funzionante. Ovviamente la ferrovia non è funzionante, tant’è che il giro sul treno a vapore è previsto per il giorno successivo, ma dall’altro capolinea. Questo intoppo mi farà cambiare i piani, per inserire un repentino ritorno a Port Erin, non previsto inizialmente. Il fatto che io stia nel frattempo iniziando a comprendere quanto le distanze siano vicine mi avvantaggerà in queste correzioni in fieri, e la vicinanza con l’aeroporto incentiva ulteriormente.
Tappa successiva: Peel, una delle città più grandi dell’isola, popolata da ben 5mila persone (Lavis, in provincia di Trento, ne conta 8mila, per capirci). Nonostante le apparenze, è provvista di un castello, ben tre musei e dell’unica cattedrale di tutta l’isola. Sono sempre più stupito di quanto le realtà piccole non siano confrontabili con insiemi di abitanti simili in realtà più grandi. Dove trovo tre musei, un castello e una cattedrale a Lavis?
Durante il viaggio, per la prima volta mi imbatto in una delle strade percorse dalla celebre gara di moto dell’isola. Cartelli a distanze regolari ne indicano le varie prove: curve, rettilinei, tornanti, ecc.
In città, decido di dedicarmi al castello e a un giretto per il centro in modo da vedere la cattedrale, per restare in ottica vacanziera e risparmiarmi un tour de force da turista a caccia di musei. Il castello di Peel si trova sopra quella che in origina era un’isola, attualmente collegata invece con la terraferma attraverso un terrapieno (similmente all’Isola di St. Michael, ricordate?). Le sue rovine (purtroppo non è stato conservato come quello di Castletown) ne lasciano intravedere la maestosità, mentre l’audioguida fornita all’ingresso permette di tornare indietro nel tempo di qualche secolo rivedendo con l’immaginazione le decine di parti di cui era composto e rivivendo gli eventi di cui è stato protagonista. Piccola nota di colore: la tizia della biglietteria mi ha di nuovo chiesto la mia provenienza; ho rivisto la faccia stupita della collega di Castletown. È così strano arrivare dall’Italia?
Il resto di Peel non è tanto diverso da un generico borgo che si affaccia sul mare. Vista la tarda ora (si erano ormai già fatte le due di pomeriggio) mi fermo in un locale per un pranzo tipico della zona: hamburger con patate fritte. Una veloce ricognizione della cattedrale concludono la mia permanenza nell’ameno paesino.
Data la levataccia delle sei di mattina, la stanchezza inizia a farsi sentire; tuttavia la giornata è solo a metà e ho in programma almeno un’altra tappa: si tratta di Ramsey, l’unica cittadina nel nord dell’isola che merita un giretto. Alle sue porte si trova la Miltown House, una splendida villa ottocentesca contornata da un rigoglioso giardino. Sono le 16.30 e mi sembra molto appropriato un tè. La regola vorrebbe le cinque del pomeriggio, ma a quell’ora il bar chiude, come la maggior parte di qualsiasi esercizio commerciale della Gran Bretagna, il ché mi fa molto dubitare sul detto suddetto (permettetemi il gioco di parole). Mezz’ora di pausa sono il ristoro perfetto per riprendere fiato e placare un pochino la stanchezza. All’uscita, mi imbatto in uno strano oggetto simile a un robot aspirapolvere che, invece di aspirare, taglia il prato. Sui prati, con gli inglesi non c’è da scherzare. A parte quel piccolo ristoratore angolo di paradiso, Ramsey non è un gran ché. La gironzolo velocemente permettendomi l’acquisto di un turisticissimo strofinaccio da cucina con la mappa dell’isola, e poi via di corsa verso Douglas, dove mi aspetta l’albergo.
Nel tragitto, in prossimità del monte Snaefell (che con i suoi 600 metri è il rilievo più alto dell’isola), becco la coda dovuta a un incidente. Perdo una buona mezz’ora per tornare a Ramsey e prendere una strada alternativa. Arrivo a Douglas esausto, parcheggio di fronte all’albergo e una volta ottenuta la chiave della stanza mi butto sul letto, dove rimango per un’ora abbondante. Quando mi riprendo dal sonnellino ristoratore, sono pronto per procacciarmi la cena. Le lucine del mio cervello dicono che il bisogno di cibo sano è impellente. Mi butto alla ricerca di un supermercato, che trovo subito (uno Spar, parente dell’italiano Despar). Per certi tipi di articoli, non bisogna guardare i prezzi, ma soprattutto le etichette. Ci sono mele dell’Alto Adige, uva del Sud Africa, banane del Belize e mandarini del Marocco. Capisco che l’Isola di Man non si presta più di tanto alla coltivazione della frutta, però l’Inghilterra offre parecchia scelta. Va be’, non posso permettermi di fare lo schizzinoso e opto per le banane (anche quelle vendute in Italia arrivano da in culo al mondo, quindi c’è poco da lamentarsi). Prendo anche un paio di succhi che – etichetta docet – sono composti al 100% di frutta. Britannica.
Il tour prosegue. Con i suoi 30mila abitanti, Douglas è la città più grande dell’isola. Ospita tutti gli edifici governativi, le banche e le catene che ci si aspetta di trovare al centro di una città “occidentale”. C’è pure il negozio della Croce Rossa. Io, in particolare, sono alla ricerca della sede di Canonical, l’azienda che sviluppa Ubuntu e che ha sede proprio a Douglas. Tuttavia, all’indirizzo millantato sul sito non c’è nulla che indichi la loro presenza. Grande delusione, soprattutto dopo 25 minuti di camminata a piedi. Mi consolo con una piccantissima cena al ristorante indiano, seguita da un’interminabile passeggiata per tornare all’albergo.
Prima di addormentarmi, placo la mia crisi di astinenza da internet e smaltisco un po’ di posta elettronica. Quello che segue è sonno, tanto sonno.